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56 - Il mercato di Cavour visto da Edmondo De Amicis

56 - Il mercato di Cavour visto da Edmondo De Amicis

Il testo è tratto da “Alle porte d’Italia”, scritto dall’autore nel 1884.
Edmondo de Amicis arriva a Cavour con il Tramvai e, attraverso il paese, sale poi anche sulla Rocca, accompagnato da “un borghese campagnolo, appassionato di agricoltura” e da “un ex professore ginnasiale” che gli fa da guida storica.
E’ giorno di mercato: quello di Cavour è “…uno dei più grandi del circondario” e lui così lo descrive:
“…La borgata somiglia a tutte le altre borgate del Piemonte: pulita, di colori allegri, nessun monumento, molte osterie. Percorrendo la strada principale riuscimmo nella piazza del mercato. C’era pieno zeppo di gente: delle file di contadine venute da tutti i dintorni, e una doppia processione di uomini e di donne della campagna, pigiati come all’uscita di una chiesa: per tutto ceste d’ova e polli, panierone colme di burro, mazzi di capponi alla mano, gabbioni pieni di galline, d’oche, di tacchini, di conigli: una profusione di roba grassa, cicciuta, soda, fresca e sana, ch’era un gusto a vedere. La prima cosa che mi diede nell’occhio furon le polpe colossali di certi preti che passavan tra la folla: delle colonne, Dio li benedica, da digradarne il Biancone di piazza della Signoria. Poi, i cappelli delle contadine, curiosissimi: dei cappelli di paglia gialla, di tesa molto larga, foderati di stoffa di sotto, fasciati di sopra di larghi nastri di seta o di velluto ricascanti fin sulla schiena, coperti di un velo di tulle nero, frangiati di conterie, ornati di penne, di rose, di mazzi di fiori finti, di catenelle d’ottone, di fermagli della forma di chiavi o di spade; dei veri botteghini di merciaio, con le più bizzarre stonature di colori che si possano immaginare. Molte avevano delle collane dorate a vari giri, dei grossi orecchini da madonna, e dei fazzoletti da collo gialli o scarlatti. C’eran dei bei pezzi di donne e dei bei fusti di ragazze, con dei colori di mela appisola, coi capelli di un biondo di spiga, serrati sulle forti nuche come nodi di corda; larghe di spalle e di fianchi, tutt’altro che piallate, piantate diritte e salde in terra come pilastri, e così strette le une alle altre, che per passare bisognava strofinarsi alle gonnelle e ai grembiali e si sentiva da tutte le partidelle rotondità resistenti e dei fiati caldi. Era davvero un mercato di contadini piemontesi. Fuor che gli strilli dei merciaiuoli dei baracconi, non si udiva una voce più alta dell’altra: nessun dialogo concitato, nessun gesto impetuoso, nessun viso acceso; una placidità di aspetti straordinaria, le mani quasi immobili, dei sorrisi quieti, un girar lento del capo e degli occhi, un contrattare a parole riposate e sommesse. Mi pareva che tutte quelle donne non fossero mai state agitate da una passione e che dovessero dar l’amore come davan le ova. Eppure… Ci trattenemmo un poco ad ammirare le bellezze più vistose; ma i nostri sguardi ammirativi, interpretati prosaicamente, non avevano altro effetto che di far alzare le galline verso di noi, in atto d’offerta. Provai, però, un vero piacere a girare, a sguazzare dentro a quell’abbondanza di tutto, a sentire tutti quei soffi di salute, quell’odore di stoffe da sedici soldi il metro, di capelli lisciati con l’acqua , di latte, di paglia, di piccionaia, di conigliera: mi pareva di purificarmi per  un mese di tutti i profumi da parrucchiere, di tutti gli odori acri e misti di cattive salse, di botteghe umide e di teatri sudici, e di libri odiosi e di prove di stampa più odiose, che ero costretto a respirare in città. E non fu così facile levarci di là dentro. All’uscita della piazza, ci trovammo chiusi in mezzo a un gruppo di poderose venditrici di cacio, e ci bisognò fare alle gomitate; poi la cesta di una bella pollaiola mi separò dai compagni; infine non ebbi più che da dividere due maschiotte marmoree che chiudevan la via, e mi ritrovai all’aperto con gli altri, tutto fragrante di latticini e di galliname…”


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